sabato 9 febbraio 2013

‘E ccriature so’ tutt’éuale


Entrai alle scuole elementari, in prima, nel 1960.
A Napoli, alla Scuola “Guglielmo Oberdan” nel centro storico.
Erano passati solo 15 anni dalla fine della guerra. 
In classe, come in tutta la città, noi bambini venivamo da un miscuglio di classi sociali, che andava dai figli di ricchi professionisti o commercianti, ai figli d’impiegati, insegnanti, operai, ai bambini di famiglie ancora senza tetto, poveri e poverissimi, ai “figli’é uerra”, spesso neri.
Tommaso si chiamava il nostro compagno nero. Veniva “à vasci’ò’puorto”.
Io, figlio di un tecnico e di una sarta, appartenevo già a una fascia privilegiata per quei tempi.

Esisteva, allora, la “tessera di povertà” e buona parte dei miei compagni di classe l’avevano.
Alle famiglie con tessera di povertà il Comune forniva il grembiulino per la scuola, la cartella in similpelle, quaderni, penne, matite, riga, squadra e compasso, e tutto il necessario.
Verso le dodici, tutti i giorni, a questi nostri compagni, veniva anche portata la merenda.
I bidelli con un carrello distribuivano loro panini, biscotti, tavolette di cioccolata e latte o tè.
Un giorno la maestra non lasciò che la cioccolata fosse data solo ai bambini con la tessera, ma fosse divisa tra tutti e, quindi data anche a noi.
Anch’io, da quel giorno, ebbi mezza tavoletta di cioccolato al latte, come piaceva a me, o fondente talvolta, ma andava bene lo stesso.

Tornato a casa, raccontai la cosa a mia madre.
Mi guardò sorridente e mi spiegò:
-Francesco, ieri, sotto scuola, quando siamo venute a prendervi, le mamme dei bambini con la tessera di povertà hanno parlato con noi e ci hanno detto:
 “è ccriature so’ tutt’éuale, a ciucculata l’hann’avé tutte quante, e no sul’é figlie nuoste.  Si nun v’offendit’jamm’nsiem’ addo’ ‘o direttore e addo’ a maesta e ci’ ’o ddicimme”.
Per questo, da oggi la cioccolata la divideranno tra tutti voi.-
Era un altro tempo.
Era un’altra Italia.
E’ Napoli.



lunedì 31 dicembre 2012

Strada Statale 268


Uno.

I negozi del paese cominciavano a spegnere le luci.
Lungo la Strada Nuova poche persone si affrettavano a tornare a casa.
Era buio.
Il buio profondo del cielo d’inverno senza luna.
Il vento di terra spazzava l’aria, la caricava di elettricità.
Le immagini, pur illuminate solo dalla luce dei lampioni, erano nitidissime.
Mi piaceva sentire il freddo in faccia e lasciarmi riempire le narici dal profumo della montagna.
Erano le sette.

Quella sera ero in turno alla stazione di servizio.
Il turno della notte di Natale.


Due.


La stazione di servizio era al vertice della confluenza tra la “Strada nuova” e la statale 268. Del Vesuvio.
La piazzola era triangolare e vi si accedeva da entrambe le strade.
Nel bar c’era Battista al banco e qualche amico a chiacchierare e a bere un caffè all’anice prima di tornare a casa per il cenone.
Su un tavolino di fianco al bancone un alberello di Natale lampeggiava con le sue lucine colorate.
Di lato, lungo la vetrata che dava sulla Strada Nuova, c’era un juke box acceso.
Suonava un brano che s’intitolava “Trenta, sessanta, novanta”.
Ero arrivato in moto, la moto di Battista.
A un centinaio di metri dalla stazione di servizio un folto capannello occupava la Strada Nuova ed ero stato costretto a fermarmi.
Una stufa verticale a gas, a bombola, accesa lì, in mezzo alla strada, aveva attirato la mia attenzione.
Serviva a dare l’illusione di un po’ di tepore in quella notte di vigilia così fredda.
Chiesi a don Vincenzo, un signore che conoscevo, cosa fosse successo.
Mi rispose in napoletano:

“Oi Fra’, che aria é neve. Ma nun saje niente? E’ muort’ mast’Eduardo.”

Pensai che aveva scelto una fredda notte senza luna, proprio la vigilia di Natale, il vecchio capomastro, per la sua veglia funebre.
Superai l’assembramento portando la moto a mano, a motore spento.


Salutai Battista, ci baciammo.

“Cià Fra’” mi sussurrò.

“Cià Batti’, comm’è gghiut’à jurnata?”

“Fin’à vij’è ccinche ce stev’ nu bellu movimento, mò però stann’accumminciann’à turnà tutte quant’ é ccase llore . Nun ce sta cchiù quasi nisciuno mmiez’a via.
E’ Nnatal’oi Fra’”.

“Cià Bbarò”, feci, rivolto a Gnicchi Gnacco che beveva l’anice, al banco, dopo il caffè corretto”.

Mi rispose con un cenno della mano e il suo sorriso da scimmia.

Gnicchi Gnacco, detto ‘o Bbarone, era un ladro di auto.
In genere rubava, su richiesta, autoradio, accessori, il treno di gomme e, raramente, su particolari commissioni, l’auto intera.
Per sé teneva soldi e valori quando li trovava, dimenticati dai proprietari e dai passeggeri nelle vetture.
Non parlava quasi mai, rispondeva a gesti e con smorfie del viso, simili a sorrisi. Per questo lo chiamavamo anche ‘a scigna, la scimmia.
Era uscito dall’ospedale da poche settimane. Era stato accoltellato all’addome da un automobilista che lo aveva sorpreso a scassinare la sua macchina.
Aveva fatto l’errore di sconfinare a San Giuseppe Vesuviano. Senza un palo. In un quartiere che non conosceva bene.
Era sempre indebitato e sempre con brutta gente Gnicchi Gnacco. E quella sera dovette scegliere tra la coltellata probabile di un automobilista e una rivoltellata alle gambe, sicura, dai comparielli del suo creditore.
Era un amico e un bravo ragazzo. Ci conoscevamo dalle elementari.

Dopo il cenno con la mano, incredibilmente mi parlò:

“Friarié”,
a volte mi chiamava così e ho sempre pensato che fosse un epiteto dispregiativo, ero uno dei suoi pochi amici onesti,
“t’aggio vist’aiere ca accumpagnav’ à Silvana, a cumpagna toja é Puortici.
Statt’attient’ Friarié, Mariano, o’ nnammurat’è nu bravo guaglione e n’amico. Nun t’atteggià troppo e nun te n’apprufittà é ll’amicizia”

Ora, c’era una reciproca simpatia tra me e Silvana. Era la mia compagna di banco e il pomeriggio a volte la invitavo a studiare da me, al ritorno dal Liceo, da Napoli.
Era una bella ragazza, minuta, lunghi capelli castani, morbidi di seta, con degli occhi splendidi, luminosissimi.
Mi piaceva, certo.
Quando le stavo vicino, tenendola per mano al ritorno da scuola, o quando, seduti in camera mia facevamo insieme la versione di greco, le teste chine sul vocabolario, il profumo degli aliti che si scambiavano caldi, e i suoi occhi grandi, sgranati, che mi fissavano ansiosi,  una sensazione di estasi pervadeva il mio corpo e un germe di felicità si svelava nella mia anima.


Tre.


Ne ero turbato, ma non ne ero innamorato, o almeno non ne avevo la percezione.
Provavo un piacere immenso quando ero con lei e le giornate, mi erano lievi, belle.

“Baro’, ma  pecché nun te faje è cazzi tuoje? Staje vevenno, e bbive e nun romper’o cazz’! Silvana e io jamm’a scola ‘nsieme, sturiamm’ nsieme, è normale.”

“Vabbuò, oi’ Fra’, t’aggio sul’avvisato.
Guagliù, me ne vac’, auguri ”.

In quel momento si sentirono fermarsi due moto sulla piazzola.
Entrarono Ninnone e ‘Aitano cap’é mbomba, due vigili urbani del paese:

“Barò buonasera e auguri.
Addò vaje?”

Era Aitano cap’é mbomba a parlare, rivolto a Gnicchi Gnacco.

“Che r’è Aità, nun pozz’fa dduje passi primm’é turnà a casa mia?”

“Bbaro’, stasera nunn’è serata. Sto ‘ncazzato, è viggilia e io torn’a casa all’unnice. Nun fa strunzate, verimm’é nun passà a nott’é Natale ‘n’ galera, pecché,  si te ‘ncoccio, primm’ te spacc’à capa, po’ te port’a quistura senza passà p’o’ spitale.”

“E che cazz’, staje semp’é ‘na manera?
E’ Natale Aità. Auguri, nun te preoccupà. Stasera nunn’arrobb’,è festa pure pe mmé.”

Gnicchi Gnacco uscì.

Aitano cap’è mbomba era chiamato così per il suo aspetto tarchiato e con il capoccione, ma soprattutto perché da ragazzo, quando si azzuffava, stendeva l’avversario con una capata “é primma”, improvvisa.
La sua famiglia aveva un bancariello ben avviato di sigarette di contrabbando, che riforniva tutto il paese. E anche lui le aveva vendute fino a quando, vinto il concorso, era entrato nella Polizia urbana
Una volta, quando non era ancora vigile urbano, mi aveva difeso riempiendo di botte e capate tre tamarri che cercavano la rissa.
Ninnone, il suo nome era Vincenzo, era un lontano cugino di mio padre, per parte di nonna, era un graduato, con lui non avevo molta confidenza.

Battista andò al juke box e mise un disco, si intitolava “Flash”.
Era un brano solo strumentale, nuovo, molto mosso, trasmetteva energia.
Pensavo a Silvana, alla sua cena di Natale, a quando l’avrei rivista a scuola, dopo l’Epifania.
E sorridevo.

“Ciccio! Staje durmenn’? Vuò fà benzin’é mmotociclette! O ce vuò fa passà Natale ccà cu tté?”

Era Ninnone.

Rifornii le due moto, mi pagarono.
Ci abbracciammo e baciammo con tutti e due augurandoci reciprocamente buon Natale.
Misero in moto. 
Ancora un paio d’ore e poi sarebbero stati a casa per il cenone.
Faceva molto freddo e il vento era diventato più violento.
Tenevo addosso un giaccone americano pesante comprato a Pugliano, a Resina, tremavo.
Restai fuori a respirare ancora il profumo dell’aria di montagna.
 Alzai gli occhi, nel buio si intravedeva il profilo della cima del Monte Somma, che nascondeva alla vista il Vesuvio.
La neve che lo copriva emetteva una luce opalescente, spettrale.
Mi accesi una nazionale.
Era il massimo che potevo permettermi.
Guardavo la Strada nuova e, in fondo, il capannello che si faceva sempre meno numeroso.
Guardavo la statale, dalle luci più fioche. Completamente vuota a perdita d’occhio.

Andavo alla pompa di benzina il sabato e la domenica, quando era turno di apertura. Ci lavorava Battista, l’amico mio, e lui aveva parlato con il padrone, che mi conosceva come un bravo ragazzo e fu lieto di darmi quel lavoro.
Mi ero offerto io di fare il turno di notte.
L’ipocrita felicità forzata di queste ricorrenze mi deprimeva: Natale, e ancora di più san Silvestro con i suoi spumanti o champagne, gli abbracci e i suoi botti.
Mia zia Carmela, che abitava a due passi, mi fece sapere che all’ora del cenone mi avrebbe fatto portare gli spaghetti a vongole appena fatti e un po’ di baccalà fritto per secondo.
Il panettone lo avevo lì, al bar della stazione di servizio.
Non bevevo vino allora.

Quattro.

Mi passò per la mente l’ultimo giorno prima delle vacanze, all’uscita di scuola.
Silvana era più avanti, le ragazze uscivano cinque minuti prima, Peppe, un altro mio compagno di classe, scendeva le scale a fianco a me.
Ridacchiando mi disse:

“E’ inutile che fai, non t’illudere, Silvana è di Mariano.”

Questo Mariano neppure lo conoscevo, lo avevo solo visto in una fotografia che Silvana aveva mostrato a me e ad Angela, una nostra compagna, anche lei di Portici.
Me ne aveva parlato qualche volta, al ritorno da scuola. Era di tre anni più grande di noi, studiava Architettura e veniva dall’istituto tecnico.
Quando parlava di lui, notavo, o mi piaceva notare, o volevo notare, che Silvana lo faceva non dico con freddezza, ma certo non con l’emozione con la quale si parla del ragazzo che si ama:  i suoi occhi, sempre luminosissimi, rimanevano distratti e raccontava di lui come se parlasse di cose ordinarie, tipo i suoi rapporti con sua madre o con sua sorella.
Si entusiasmava molto di più quando parlava delle vacanze o di un sette preso alla versione di Greco.
Un giorno alla lettura dei voti voti della versione, lei sette, io otto, mi si buttò addosso nel mio banco e mi baciò, davanti a tutti, sotto lo sguardo imbarazzato del professore.
Poi lo guardò sorridendo e gli disse,

“Mi scusi professore, non voleva essere un gesto sconveniente il mio. E’ che abbiamo studiato insieme.”

E si voltò ancora verso di me fissandomi con i suoi occhi che brillavano.
Fu l’unica volta che mi baciò.
Non mi ero mai fatto illusioni. Non me ne facevo.
Nessuno si era mai messo con una compagna di classe. Le ragazze preferivano i ragazzi più grandi e io sapevo che per me qualunque partita era persa.
Ma gli occhi di Silvana, la sua voce, il profumo dei suoi capelli, del suo corpo, quel lievissimo e discreto sentore di sudore i pomeriggi estivi di fine anno scolastico, a casa mia, più raramente a casa sua, sono ricordi e sensazioni che porterò con me tutta la vita.
Fu lei la prima volta a chiedermi se volevamo studiare insieme. In Latino e Greco faceva più fatica di me e mi confessò che le avrebbe fatto piacere se avessi accettato.
Ho sempre voluto pensare che lo fece solo perché insieme si studia meglio.
Angela, un giorno mi sorprese in classe che le cingevo la spalla con il braccio, leggendo insieme dallo stesso libro, i volti e le bocche vicinissimi.
Mi disse velenosa:

“Franco, non ti frusciare. E stai attento, anche i professori si stanno accorgendo di voi.”

Non mi frusciavo. Non mi ero mai frusciato. Però davvero, una mattina, uscendo dall’aula dopo la lezione, la professoressa di chimica mi incrociò nel corridoi e mi chiese:

“R. mi scusi l’indiscrezione, ma lei e Silvana M. state insieme? Siete molto belli nel vostro banco.”

Il  nostro banco era in prima fila. Proprio di fronte alla cattedra.

Quando capitava che non studiavamo insieme e ognuno tornava a casa sua, appena finivo di mangiare, arrivava la telefonata di Silvana.
E ci richiamavamo più e più volte.
Parlavamo per ore. Confrontavamo le versioni e lei mi parlava sé, della sua giornata, di sua sorella, di che musica ascoltare, di tante cose.
Mai di Mariano.
La sua voce cristallina e melodiosa era dolcissima.

“Fra’ se so’ fatt’é ddieci. Io me ne vac’a casa.”

Battista mi abbracciò. Ci baciammo.

“Auguri Batti’. Salutam’a tutte quant’, e dà nu vas’a Rosetta pe mmé.”

Salì sulla moto e si avviò.

Mentre lo guardavo allontanarsi lungo la strada nuova, nella piazzola si fermò un pullman della Vesuviana. Era l’ultimo pullman da Napoli. Ne scese l’autista e i soli tre viaggiatori.
Entrarono, chiesero un caffè e andarono alla toilette.
Gli preparai i caffè, scambiammo quattro parole.
Erano tre addetti alle pulizie di un palazzo di uffici a Napoli. Avevano finito tardi e tornavano giusto in tempo per il cenone.
La corriera ripartì.

Arrivò Anna con i piatti caldi degli spaghetti e del baccalà ben stretti in un fagotto fatto con una tovaglia rossa.
La ringraziai. Ringraziai zia Carmela. La baciai raccomandandole di rientrare subito a casa, ché faceva freddo.

Alle undici non c’era proprio più nessuno.
Mi rilassai sulla poltrona al banco della cassa prima di mangiare.

Entrò Gnicchi Gnacco, affannato, con un autoradio sotto braccio e un sacchetto in mano.

“Barò, ma che sfaccimm’é cumbinato? Si t’acchiappavan’ Aitan’ e Ninnone, stavota veramente te spaccavan’a capa. E si te’ncucciav’o padrone r’a machina t’abbuscav’ n’ata curtellata. Strunz’.”

“Fra’ nun m’ha visto nisciuno, t’o’ ggiuro!”

“E mo’ che faje ccà, che vuò a me? Tien’addò ji?”

“No Fra’, sto ssule. Int’a machina  ce steva stu sacchett’é noci,” Con il suo sorriso da scimmia.


Apparecchiai su un tavolo del bar con la tovaglia rossa del fagotto.
Presi dei piatti di carta e delle posate di plastica.
Ci sedemmo.
Scoprii il piatto di spaghetti ancora fumante e il baccalà.

“Buon’appetito e auguri Barò.”
“Auguri Friarié”.

(Milano, novembre 2011)

domenica 18 novembre 2012

Ritratti ad acquerello


6. Bianca. Il mio amore per la matematica

Quella mattina d’inverno c’era sciopero e manifestazione dei fascisti. Davanti al Genovesi c’era un picchetto composto da mazzieri venuti da fuori e dai pochi fascisti del nostro liceo.
Quasi tutti gli studenti quel giorno, compresi i miei compagni, avevano preferito fare filone ed evitare rischi di mazzate.
Io, per coerenza e, lo ammetto, per stronzaggine, per confermare la mia immagine di compagno duro e puro avevo deciso di entrare lo stesso, fottendomene dei fascisti e forzando il picchetto. In verità contavo sul fatto che nel picchetto c’era qualche mio compagno di classe e che godevo di un certo rispetto, per cui sapevo che la probabilità di prendere mazzate era piuttosto bassa e comunque trascurabile rispetto all’enorme guadagno in termini d’immagine.
Così entrai.
Aveva cercato di fermarmi Tatà, uno dei cosiddetti “fratelli vaccarielli”, l’altro era Enzo, il più piccolo. Era finita con uno scambio di schiaffoni, uno preso da me, ma due presi da Tatà. Il quale, come avevo giustamente calcolato, quando vide i suoi camerati venirgli a dare man forte disse loro di allontanarsi, che con me se la sarebbe vista da solo. Così dopo la paccariata mi lasciò passare.
Salito in classe, mi accorsi di essere l’unico di tutto il Genovesi che era entrato.
Era l’ora di matematica. Lei si presentò puntuale come sempre nonostante i picchetti e lo sciopero.
Al suo ingresso mi alzai in piedi in segno di saluto, come d’abitudine.

“Non mi aspettavo di vederla stamattina, Romano. Però, forse, a pensarci bene, mi sbagliavo.”

Sedette in cattedra e prese lentamente un libro dalla sua borsetta di pelle nera.

Era una donna di più di cinquant’anni, Bianca Scognamiglio, aveva un viso che poteva sembrare cattivo a prima vista, ma che guardato con più attenzione e profondità di spirito, si rivelava bello, il viso di una donna che in anni più giovani doveva essere stata molto bella. Era alta e snella per la sua età, ma aveva forme armoniose sia pur pudicamente nascoste da un abbigliamento estremamente sobrio, freddo e formale: tailleur grigio, verde scuro o marrone, twin set di lana, sempre impeccabilmente accoppiati, una collana di perle, scarpe classiche con tacco medio elegantissime.
Aveva gli occhi verdi e occhiali con una montatura nera sottilissima e squadrata.
Tatà, sì quello con cui avevo fatto a mazzate, più di una volta mi aveva confessato che la Scognamiglio spesso sconvolgeva di notte i suoi sogni erotici di adolescente.

Aprì il libro. Era piccolo, dalla copertina lucida, rilegato in pelle.

“Le va se stamattina approfittiamo che siamo soli per leggere e commentare alcuni passi di San Giovanni Della Croce?”

Sorpreso e in soggezione (ero sempre in soggezione davanti alla Scognamiglio), balbettai a voce bassissima

“Veramente sono ateo, professoressa. Non so quanto possa interessarmi”

Mi guardò con i suoi occhi cattivi.

“Le interessa, e poi non faccia il buffone: è troppo giovane per dirsi ateo. Stia attento e ascolti. Dopo, se ci sarà tempo, parleremo di matematica, ma non vado avanti con una lezione in assenza della classe.”.

Così mi sciroppai mezz’ora di letture da San Giovanni Della Croce, di cui confesso non ricordo niente.

Finalmente posò il libro e mi propose:

“Romano, visto che lei non ha problemi con il programma di algebra e sono certa non ha bisogno di chiarimenti o spiegazioni, le va se la faccio un’introduzione alle geometrie non euclidee? Vorrei parlarle della geometria di Lobacevskij.”

Io ero veramente molto bravo e appassionato di geometria euclidea, l’idea che la Scognamiglio mi ritenesse degno di poter andare oltre, mi lusingò e m’inquietò allo stesso tempo.

“Certo, professoressa, risposi, m’incuriosisce sapere che possono esistere altre geometrie.”

Così trascorremmo ben più di mezz’ora in una lezione sulla geometria iperbolica che nulla aveva a che vedere con i programmi.
La guardavo ammaliato e ascoltavo ogni sua parola dalla sua voce roca e seguivo ogni passaggio alla lavagna con una concentrazione che raramente ho ritrovato più avanti negli anni.
Alla fine delle due ore ero orgoglioso di aver capito, di essere stato in grado di seguire i suoi passaggi logici e geometrici.
Di quella mattinata mi è rimasto il ricordo dei suoi occhi, l’unica volta in cinque anni di liceo in cui mi dedicò uno sguardo buono.

Qualche settimana dopo, in un’altra giornata di sciopero, questa volta proclamato dai “Comitati di lotta”, disertai la manifestazione.
Andai alla biblioteca nazionale.
Presi “Nuovi Principi della Geometria con una Teoria completa delle Parallele” di Nikolaj Lobacevskij e cominciai a studiarlo.

Milano 18 novembre 2012.






mercoledì 7 novembre 2012

Ritratti ad acquerello


5. Julia. La parrucchiera russa

Finito.
Lavati, tagliati e pettinati i capelli.
A spazzola stavolta.
E all’improvviso, ho visto nello specchio il viso di mio nonno Francesco, Francesco Romano, come me.
Mi sono guardato incredulo, con attenzione, mi sono concentrato su quell’immagine. Era proprio lui nello specchio, non più io.
Lui a 58 anni.  
Stessa faccia, stessi occhi, stessi capelli bianchi, stessa pettinatura, stesse rughe, stessa espressione severa, stesso sguardo freddo e attento.
“Me so’ fatto viecchio”, ho pensato guardando la faccia di mio nonno nello specchio.
Ma questa scoperta non mi ha inquietato, né mi ha depresso.
Somigliare in maniera così incredibile a mio nonno mi ha riempito d’orgoglio.

“Allora, va bene?”

Era la voce di Julia, la parrucchiera, che mi ha distratto da quei pensieri e mi ha riportato alla realtà.

“Sì, perfetto. Come sempre”, ho risposto con un impercettibile sorriso guardando nello specchio i suoi occhi di ghiaccio, di quel celeste che hanno solo gli occhi delle donne russe, così come un particolarissimo verde bottiglia caratterizza gli occhi delle ragazze irlandesi.

E’ poco più alta di me Julia, capelli biondi chiarissimi, occhi celesti, magra come può essere magra una donna russa intorno ai 40 anni, dalle forme armoniose, ma che esprimono forza.
Da un paio di anni vado nel suo negozio di parrucchiere a tagliarmi i capelli.
Ricordo la faccia che fece la prima volta, quando, mentre con cura meticolosissima mi stava sistemando le basette, mi rivolsi a lei in russo, chiedendole di che regione fosse.
Avevo capito dall’accento inconfondibile che doveva essere russa o ucraina.
Trasalì un attimo e fissandomi con i suoi occhi penetranti come spot di un laser che ti colpisce fino al profondo dello spirito, mi chiese in italiano come mai conoscessi il russo. Le risposi che lo avevo studiato ai tempi dell’università, del politecnico, che avevo studiato su testi russi di matematica, sul Demidovich.

“Il Demidovich! Anch’io ci ho studiato analisi matematica all’università a Pietroburgo, ma lei è un matematico?”

“No, sono ingegnere”

“Anch’io sono ingegnere, ingegnere minerario.”

“Io, meccanico e nucleare. E com’è che fa la parrucchiera qui a Milano?”

“Sono della regione del Caspio, ai confini con il Kazakistan, una regione ricca ai tempi dell’Unione Sovietica.
Quando ero ragazza ricordo che con mia mamma, con pochi soldi e senza problemi, potevamo permetterci di andare in aereo ad Alma Ata o addirittura a Istanbul a fare compere.
Dopo il liceo ho vinto una borsa di studio alla facoltà d’Ingegneria dell’Università di Pietroburgo. Sono stati anni bellissimi.
Finiti gli studi sono tornata al mio paese sul Caspio, ma eravamo precipitati tutti in una povertà senza speranza. Niente più fabbriche, miniere abbandonate, né ero riuscita ad ottenere il permesso di lavoro per andare a Mosca o tornare a Pietroburgo.
Con un’amica sono venuta in Italia, all’inizio solo per guardarmi intorno.
Poi ho conosciuto Antonio e l’ho sposato. E ho aperto questo negozio di parrucchiere.”

Così, circa una volta al mese vengo a passare un’ora da Julia, che mi sistema i capelli e parliamo di letteratura russa, di Dostojevsky, di Tolstoi, degli autori moderni o delle differenze di modo di vivere, della situazione politica, in Russia e in Italia.
Lei mi racconta delle bellezze del suo paese.
Quando parla di Pietroburgo le si illuminano gli occhi, quegli occhi celesti di ghiaccio, eppure così vivi e penetranti e se le parlo di cantieri in Kazakistan, di Alma Ata, dell’inverno sul Caspio, in quegli stessi occhi colgo un impercettibile velo di malinconia.

“Forse prenderò la cittadinanza italiana -  Mi ha detto questa mattina salutandomi, - sono sposata, vivo e lavoro qui da oltre 10 anni, posso ottenerla”.

“Eppure se non ricordo male, mi aveva detto che ha voluto che sua figlia, pur nata in Italia, avesse la cittadinanza russa, della sua famiglia”.

Mi ha guardato con il suo sorriso impercettibile e negli occhi quel velo di malinconia.

“Alla prossima”

“Alla prossima, arrivederci”.

(Milano, 7 novembre 2012)


domenica 21 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


4. Laurie

La intravidi a un tavolo vicino al nostro. Erano quattro coppie. Non ne avevo percepito subito la presenza. Mi accorsi che faceva parte di quel gruppo quando si alzò e senza chiamare il cameriere andò da sola a prendere una bottiglia di vino e un secchiello con il ghiaccio.
Era di casa Laurie al “Vin sur vin”.
Era la maître di sala.

Ricordo la sera che facemmo la sua conoscenza, forse dieci anni fa ormai. Allora il maître era ancora Mario, un bell’uomo, canuto, francese doc a dispetto del nome, che parlava benissimo l’italiano e si divertiva con noi a chiacchierare degli argomenti più svariati nelle due lingue.
Quella sera, era inverno, eravamo nella sala interna, calda ed accogliente con le sue boiserie e le sue pareti ricoperte di scaffali di legno scuro sui quali erano poste in maniera impeccabile migliaia di bottiglie di vino.
Non venne Mario a prendere la commande.
Si avvicinò al nostro tavolo una ragazza dall’apparenza timida.
Aveva i capelli neri a caschetto, occhi nerissimi.
Il mento a punta e la forma del viso, spigolosa e dolce allo stesso tempo, rendevano grandissimi quegli occhi.
Era di altezza media, il corpo magro, ma neanche tanto, le spalle strette, in armonia con i piccoli seni, mai ostentati.
La sua pelle era di un colore ambrato
Aveva insomma una sua grazia particolare.
Quando ordinammo, la sua timidezza apparente si trasformò in una garbata freddezza di sublime professionalità.

“Bien, c’est parti!”

disse usando la frase di rito di Mario quando aveva completato le ordinazioni, e ci offrì dello spumante come aperitivo.
Trascorremmo una bella serata, la cena fu squisita come sempre, e come sovente accadeva, alcune portate rasentarono il sublime.
Il servizio di Laurie fu impeccabile. Tuttavia freddissimo.
Mi piaceva la professionalità spinta di quella ragazza.
Quando, pagato il conto, ci salutammo, le dissi che era nuova del “Vin”, lei mi rispose di sì e che aveva un contratto di sole cinque settimane. Capii dal suo modo di porsi che sapeva che eravamo vecchissimi clienti, ai quali la proprietà teneva molto.

Passarono un paio di anni. Mario lasciò il “Vin” e aprì un ristorante a Parigi.
Per qualche mese condusse il bistrot direttamente Franck, il proprietario. Poi, una sera d’estate, eravamo a un tavolo in terrazza, comparve lei, Laurie.
Ci riconobbe, ci sorrise.
Intendiamoci, “sorrise” è una parola forse troppo confidenziale, diciamo più correttamente che ci rivolse uno sguardo cordiale.
Aveva i capelli lunghi, non più a caschetto e la sua pelle era ancora più bruna.
Era lei il nuovo maître al posto di Mario.
Il suo ritorno però suscitò l’invidia dei due camerieri più anziani, che aspiravano a loro volta alla promozione. E invece era stata richiamata quella ragazza che due anni prima aveva lavorato con un contratto a termine.
Fu forse quello il periodo migliore e di maggior successo del “Vin”. Eppure talvolta percepivo una fortissima tensione tra Laurie e i suoi sottoposti.
Lei era bravissima.
Quella ragazza minuta con gli occhioni neri, che non alzava mai la voce, con toni pacati ma freddissimi e che non ammettevano replica, faceva marciare il locale a livelli di altissima qualità.
Entrammo in confidenza, d’inverno cenavamo lì tutte le volte in cui arrivavamo a Nizza e d’estate prendevamo l’aperitivo quasi ogni sera e spesso ce lo offriva.
Ci raccontò un po’ di lei, che era della Martinica, che aveva studiato moltissimo e preso il diploma nei migliori istituti alberghieri di Francia, che un giorno sarebbe ritornata nelle Antille, dai suoi.

Mi sembrò strano vedere Laurie in veste di cliente e non di maître. Quando ripassò con la bottiglia e il secchiello del ghiaccio, ci riconobbe e ci sorrise, e stavolta era un vero sorriso.
E la vedemmo spigliata e naturale e la sentimmo ancora ridere e sorridere con i suoi amici.
Mi rivolse uno sguardo ammiccante e, mostrandomi la bottiglia di vino, disse

“oggi basta essere seri, Monsieur Romano, non lo sono io, non lo siate neanche voi. Beviamo insieme.”

E rideva. E rideva.

Finirono di cenare. Laurie si alzò e si avvicinò a me per salutarmi. Con mia enorme sorpresa mi abbracciò e mi baciò.
Mi sussurrò:

“E’ la mia ultima sera a Nizza. Torno in Martinica. E’ stato bello conoscervi.”

Mi baciò ancora. Poi prese il casco.
Si avviò verso la moto, che teneva come sempre parcheggiata sotto un albero di fronte. Mise in moto.
Partì. Senza voltarsi.

Nizza, agosto 2010. Milano, ottobre 2012.




sabato 20 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello

3. La spacciatrice di pane


Uno dei momenti più piacevoli della giornata, quando sono in Francia, soprattutto d’estate, è andare a comprare la baguette o la michette da quella che chiamo la mia spacciatrice di pane.
E’ una vecchia bottega di panetteria artigianale, a circa 300 metri da casa mia.
Certe mattine, poco prima delle undici, scendo di casa, esco dal portone sulla strada assolata, mi porto dal lato in ombra, e cammino a passo lento, godendomi l’aria sempre un po’ fresca, per il tiraggio che fanno queste lunghe traverse che degradano molto lentamente fino al mare.
Sapere che sto andando a prendere il pane mi mette subito di buon umore.
Il bello della vita qui è godere le piccole cose, in un edonismo minimalista che sembrerebbe contraddire la fama snob di questi luoghi.
Se il cielo è un po’ coperto, l’atmosfera è ancora più gradevole.
Raggiungo il primo incrocio, guardo la lavagna del bistrot di fronte, sulla quale è scritto il piatto del giorno.
La leggo con attenzione e curiosità, anche se non ho in programma di pranzare là, commento tra me e me la proposta, un auspicio per la giornata, attraverso la strada e continuo a camminare.
Passo davanti al negozio di fiori e al negozio di strumenti musicali, guardo in un'altra traversa in fondo alla quale è un piccolo supermarket, una superette, come dicono qui, pensando se mi serve qualcos’altro.
Poi vedo la bottega, di vecchio panettiere, con le sue boiserie rosso ciliegio, fuori il banchetto con “Nice matin”, e il profumo del pane appena sfornato.
La panettiera, la mia spacciatrice di pane, è una donna sui quarant’anni, dall’aria di scoppiatona di una volta, a metà tra Zola e Kerouac. Il viso non è bello, ma ha un che di piacevole, con quel suo aspetto drogato, precocemente invecchiato.
Mi piace immaginarla giovane hippy, strafatta di qualunque cosa, che a una certa età col suo compagno ha rilevato la panetteria.
Dentro la bottega, alle spalle del banco, i ripiani di legno sui quali è il pane: pane di campagna, bianco e nero, in pagnotte piccole e grandi, pane ai cereali, ma, soprattutto, baguettes e il loro capolavoro, le michettes.
Ma le michettes sono sfornate solo alle undici e solo pochi pezzi, per cui se si arriva troppo presto c’è da aspettare, se si arriva magari già solo alle undici e dieci, non se ne trovano più.
Per questo vado verso le undici, e qualche volta aspetto.
Il forno è a vista, dietro al banco. Il fornaio è il compagno della panettiera, anche lui sui quaranta, tatuatissimo, con i capelli lunghi, gli occhi da drogato perso, gentilissimo e simpatico.
Non c’è bisogno di chiedere, la signora mi porge, se c’è, la michette, altrimenti mi fa uno sguardo complice di comprensione e mi porge una baguette.
Caldissima di forno.
Pago.
Saluto.
E piano, molto piano, a passi lentissimi, ritorno a casa.

Nizza, Agosto 2010.

mercoledì 17 ottobre 2012

Ritratti ad acquerello


2. La signora di Borgomanero

Era bruna, occhi neri, capelli lunghi raccolti a coda. Vestiva un jeans, un maglioncino e, sopra, un giubbotto.
La prima cosa che ho notato è che aveva un piercing all’orecchio destro, un anellino con una pallina metallica.
Nonostante l’aspetto e l’abbigliamento giovanile era una signora di più di 35 anni.
Non emanava fascino, non nel senso più comune del termine almeno, ma m’incuriosiva molto e non era per niente brutta, anzi, tuttaltro, era a suo modo attraente, ma solo per chi poteva davvero percepirlo.
L’imbarco sul volo da New York per Milano era stato puntualissimo. Un po’ di ressa per overbooking, ma niente di grave, alla fine tutti avevano trovato posto.
Lei mi era seduta a fianco.
Al principio non mi ero reso conto che fosse italiana.
Non aveva detto una parola e io per discrezione le avevo rivolto solo uno sguardo di saluto a cui aveva risposto con i suoi grandi occhi neri.
Durante il decollo era raccolta, con la testa bassa e lo sguardo fisso sulle sue mani poggiate sulle ginocchia.
Ho avuto l’impressione che avesse paura di volare, ma non percepivo in lei tensione, piuttosto concentrazione pensierosa, volere stare sola con se stessa.
Per due ore ogni tanto la guardavo. Ferma con le mani raccolte e lo sguardo fisso su di esse.
Poi le sono caduti gli occhiali da sole che teneva poggiati sul sedile.
Li ho raccolti.
Glieli ho porti.
E allora il suo “grazie” mi ha rivelato che era italiana.
Aveva  una voce dolce un po’ acuta, che trasmetteva un immediato senso di tenerezza.
Una voce e un tono, però, che non davano spazio ad approcci di conversazione.
Intendiamoci, non era freddezza, anzi, tutt’altro, non era scostante, non so, ma ho sentito subito un senso di rispetto.
E io che sono sì freddo e scostante, ho colto subito la confidenza di quel segnale.
Dopo un’altra ora, mentre guardavo il film, ho sentito di nuovo la sua voce:

“ Mi scusi, può aiutarmi? Non mi funziona la cuffia”.

Le ho sorriso, ho guardato le sue cuffiette. Avevano entrambi gli auricolari rotti.

“Uff, ora devo aspettare che passi la hostess o chiamarla…”

Ne avevo un paio in più, non so perché.
Le ho offerto le mie.
Mi ha sorriso a sua volta, soprattutto con gli occhi.
Sono passate altre ore.
Ogni tanto mi giravo dalla sua parte, la vedevo dormire, sempre col suo giubbotto jeans addosso.
L’ho vista alzarsi per sgranchire le gambe, e tornare a sedersi.
Poi finalmente il linguaggio degli sguardi ha fatto trasparire un minimo spiraglio a comunicare, a parlare.
Mi ha guardato un impercettibile attimo in più di prima, era l’invito.

“ Tutto bene?” le ho chiesto.

“Sì, tutto bene, e lei?”

Adesso aveva bisogno e voglia di parlare, e allora mi ha raccontato del suo viaggio negli USA, del suo compagno, che ci andava spesso per lavoro, ma che per questo non era potuto rientrare con lei, dei posti dove aveva soggiornato.
Ascoltavo. Finalmente rilassata, sorrideva.
Avevamo taciuto rubando solo sguardi per sette ore.
Poi mi ha rivelato di essere un chimico industriale, di lavorare in Brianza.
Le ho detto che sono ingegnere e che anch’io ho lavorato nell’industria chimica per anni.
Si è sciolta completamente. Abbiamo continuato a chiacchierare di tutto, delle nostre vite e delle esperienze di lavoro, per molti versi comuni.
“Lavoro in Brianza, ma sono di Borgomanero”.
Borgomanero, un paese cui sono molto affezionato, che mi ricorda i primi tempi al nord, meno che trentenne, quando ci passavo nei fine settimana andando al Lago d’Orta.

“Io ho un ufficio a Novara”.

Ha subito sorriso, aveva trovato un altro elemento che ci accomunava in qualche modo.
Mentre parlavamo di futuro e di lavoro, l’aereo è atterrato senza  che quasi ce ne rendessimo conto.
Abbiamo raccolto le borse.
L’ho aiutata a tirare giù i bagagli.

“In bocca al lupo” le ho detto, “forse allora le nostre strade s’incroceranno…”

“ Lo spero veramente”…

”buona fortuna”.

La coda per il controllo passaporti era particolarmente lunga e lenta.
Ho sentito alle mie spalle una voce:

“Buona fortuna ancora e…a presto…”

Mi sono voltato, ho visto i suoi occhi fissarmi e un ultimo sorriso.
Poi la coda ha cominciato a muoversi sempre più veloce.